Writing dreaming hoping

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Schiava del fato

lunedì 18 gennaio 2010

Schiava del fato - 2° capitolo


Dopo che ci ebbero legati gli uni agli altri, le guardie ci fecero scendere malamente dai carri e fatti camminare in una strada affolata, mostrati con orgoglio agli occhi della popolazione, giunta ad accoglierci tra insulti e risate di scherno.
Procedevamo lentamente essendo stanchi, affamati e sopratutto impauriti.
Cercai di mantenere sempre un buon passo per evitare di attirare su di me le ire dei soldati che ci accompagnavano. Quella gente non esitava ad usare la violenza ed io per il momento non avevo bisogno di ulteriori maltrattamenti.
Il fetore che aleggiava intorno a noi era molto intenso e in gran parte proveniva da noi stessi. Abbassai lo sguardo per osservare quel che rimaneva della mia tunica battesimale: Era sporca di fango e del sangue di mio fratello oramai incrostato sul tessuto.
Pensare a Glauco e alla mia famiglia era un dolore intollerabile, Dio quanto mi mancavano, se solo avessi potuto piangere la loro morte sfogando tutto il dolore che mi portavo nel petto, forse ora controllare le mie emozioni sarebbe stato più semplice, ma purtroppo non toccava a me decidere, ora la mia vita era nelle mani di questi esseri demoniaci, che non conoscevano ne grazia ne misericordia.
Grande era lo schiamazzo della folla corsa ad osservarci, e più rimanevamo impassibili, più le provocazioni nei nostri confronti aumentavano.
Un bambino che non doveva avere più di otto anni, si chinò a raccogliere una manciata di fango dal terreno e lo getto addosso ad un uomo che si trovava poco piu avanti a me nella fila.
Questi fece finta di niente, alzo solo le mani che erano legate tra loro per pulirsi il viso continuando a camminare e tenendo lo sguardo fisso davanti a sè.
Cercando di non farmi notare scrutai furtivamente intorno a me: Spogli edifici in pietra scura costeggiavano la strada, mentre in lontananza si poteva scorgere un grande forte che, imponente, dominava la città.
Tutto sembrava privo di colore, eppure dovevo ammettere che c'era qualcosa di selvaggio in tutto ciò, un qualcosa che affascinava.
Le persone che abitavano quel luogo erano molto diverse da quelle che ero abituata ad osservare ogni giorno.
Erano più alti, gli uomini imponenti e privi di ogni traccia di delicatezza, i volti pallidi e gli occhi chiari dallo sguardo duro, tipico di chi vive ogni giorno in una realtà dura contornata da poche gioie. Ma sopratutto Ognuno di loro possedeva un indomita massa di capelli lunghi e selvaggi.
In quel momento inciampai su un sasso che sporgeva dal terreno. Sentii la caviglia torcersi e immediatamente un dolore pulsante crescere fino a strattapparmi un piccolo gemito. Stringendo i denti tornai a posare il peso sul piede nel compiere un altro passo. Non mi sarei di certo fermata per una piccola storta, avrei ignorato il dolore andando avanti come qualsiasi altra persona avrebbe fatto nelle mie condizioni.
"Forza, più veloci feccia umana" una frusta schiocco a terra vicino ai miei piedi. Posai lo sguardo alla mia sinistra di colpo intimorita da quel rumore. Cercai di velocizzare il passo nel tentativo di non destare l'ira dell'uomo vicino a me, ma i miei tentativi goffi non fecero altro che attirare la sua attenzione.
Come a ribadire la sua superiorità agitò la frusta in maniera minacciosa "Cosa guardi cagna, cammina piuttosto".
Mi morsi il labro inferiore per impedire a me stessa di protestare.
Cercai così di accellare il passo, ma il mio piede gia dolorante protesto vivamente quando lo sovraccaricai scelleratamente del mio peso, e finii così per inciampare e cadere fuori dalla fila. Annaspai inpaurita cercando di rimettermi in piedi, poi chiusi gli occhi preparandomi gia a ricevere un colpo. Con mia vergogna iniziai a tremare, piena di paura per il trattamento che avrei ricevuto, ma inaspettatamente invece di sentire una sferzata, sentii delle mani che stringendomi saldamente per le spalle, mi aiutavano ad alzarmi.
Una volta in piedi aprii gli occhi ritrovandomi a fissare un uomo dallo sguardo di un blu intenso nel quale trovai qualcosa che non mi sarei mai aspettata di ricevere: Gentilezza.
Dovevo essere rimasta imbambolata a fissarlo perché lo sconosciuto mi diete una piccola, ma gentile spinta "Vai".
Ricominciai a camminare voltando la testa per cercare di guardarlo ancora, ma poi lo persi di vista. Non avrei mai dimenticato quell'unico gesto umano che per la prima volta da giorni mi fu rivolto.

Tra strattoni, comandi ed insulti arrivammo finalmente al forte.
Degli uomini a cavallo ci stavano aspettando di fronte al grande cancello.
Indossavano delle splendite armature che gli conferivano un aria signorile, di certo doveva trattarsi di persone dalla levatura superiore rispetto a quell iche ci avevano catturato.
Uno di questi soldati si fece avanti rivolgendosi al capo del nostro gruppo
"A quanto vedo la missione è stata un successo" la voce era profonda e pesantemente accentata "Quanti ne avete portati indietro?"
"Inizialmente erano in settantotto, poi durante il viaggio ne abbiamo persi alcuni"
" E ora quanti ne sono rimasti dunque?"
" Quarantasette" Il modo leggermente scattoso nel quale si muoveva attirò la mia attenzione
"Avete trovato resistenza?" lo sguardo dell'uomo era duro come l'acciaio e non mostrava traccia di approvazione.
"No mio signore, ma la popolazione era più numerosa del previsto, e per avere la sicurezza della facile vittoria non potevamo permetterci di fare troppi prigionieri, non volevamo rischiare una rivolta durante il tragitto del ritorno"
"Capisco. Sappi tuttavia, che non sono molto soddisfatto, ma per questa volta sarò clemente con te e con i tuoi compagni".
Girando il cavallo si diresse nuovamente verso gli altri uomini a cavallo che lo attendevano alle sue spalle.
Avvertii la tesione sciogliersi nei soldati accanto a noi, come se avessero tirato simultaneamente un sospiro di solievo... peccato, sarebbe stato bello vedere il loro sangue che macchiava il terreno.
Mi ritrovai a fissare gli uomini a cavallo insistentemente, ma subito distolsi lo sguardo. Sbirciai discretamente intorno a me, ma a quanto pare nessuno mi aveva notata.
Gli uomini a cavallo si girarono a guardarci prima di spronare le loro cavalcature e andarsene, mentre quello che doveva essere il loro capo si fermò un momento accanto ai guerrieri in testa al gruppo
"Solito trattamento per i prigionieri ma questa volta divideteli in tre gruppi"
"Certo signore" rispose il capogruppo, mentre poggiava un ginocchio a terra abbassando la testa in segno di rispetto.
Alzandosi in piedi si giro verso di noi e ricominciò a tuonare ad alta voce "Forza luride bestie muovetevi priama che vi faccia passare io la voglia di stare fermi ad oziare"
Come se fossimo un sol uomo riprendemmo a muoverci. Una volta passato il primo cancello ci ritrovammo a percorrere un corridoio in marmo per sfociare poi nella grande piazza all'interno del forte.
Fummo acconti dal clangore di diverse spade che cozzavano abilmente tra loro. Individuai così il gruppo di soldati alla nostra destra che con movimenti ipnotici volteggiavano su loro stessi in una danzata fatta di parate e stoccate. Mi stupii di vedere quanto quei guerrieri erano aggraziati nonostante la loro stazza. Di certo erano combattenti formidabili.
Solo in seguito notai le cateneaffisse sulla parete dell'edificio principale che si trovava proprio di fronte all'entrata.
Non potevo fare a meno di chiedermi che cosa ne avrebbero fatto di noi. Di certo il loro scopo non era quello ucciderci. Non subito almeno, altrimenti quale sarebbe stata la ragione di mantenerci in vita fino ad allora?
Dovevamo servigli a qualche cosa di certo, ma era dannatamente difficile cercare di comprendere quel popolo cosi diverso da noi.
Per loro niente sembrava avere realmente importanza se non la forza bruta, eppure si arrogavano il diritto di vita e di morte, quel diritto che spettava solo agli dei.
Mentre ci trascinavano all'interno del corpo principale dell'edificio, vidi i soldati che prima stavano combattendo, interormpere le loro attività per guardare nella nostra direzione con sorrisi apparentemente soddisfatti.
Mi chiesi se anche loro si sarebbero uniti a quella schiera di persone pronte solo a farci del male.
Entrati nell'edificio, fummo condotti a una rampa di scale. Iniziammo cosi la discesa nei nostri peggiori incubi.

Una grande porta di ferro cigolò in maniera sinistra e il guardiano che l'aveva aperta si spostò di lato per farci passare. Uno ad uno fummo spinti aldilà della soglia.
Il buio aleggiava pesantemente nello stanzone, ed era così fitto che non fui in grado di distinguere nemmeno i contorni delle cose. Non c'erano finistre lì, lo si poteva percepire anche dall'aria ferma e immobile che odorava di morte.
La porta fu chiusa dietro di noi, isolandoci in una dimensione priva di tutto quello che avevamo amato: Luce, aria, sole, acqua.
Cercai a tentoni una parete e la trovai dopo essere andata a sbattere contro tre persone. Una volta arrivata alla meta mi lascia cadere a terra poggiandovi la schiena.
Mi portai le ginocchia al petto e vi nacosi il volto.
Ogni movimento, ogni bisbiglio o gemito era amplicato dentro quella cella buia. Tirai dei respiri profondi ignorando il tanfo che c'era lì dentro. Cercai di escludere il mondo, anche se ora il mio mondo era quella realtà così dolorosa.
Respirai cercando di calmarmi, ma più respiravo più sentivo il mio petto che cominciava ad essere scosso da singhiozzi silenziosi.
Una piccola mano si posò sulle mie ginocchia, alzai di scatto la testa spalancando gli occhi. Un bambino di non più di 10 anni si avvicinò a me, e mi guardò a lungo.
Che pena mi fece vedere quanta tristezza vi era li dentro;
Fu allora che mi lasciai andare. Non ce la fecevo più a trattenere le lacrime;
Gettando fuori un sospiro tremulo, piansi abbracciando convulsamente il bambino che aveva liberato quelle lacrime che fino ad allora erano rimaste dentro di me a bruciarmi la gola.
Strinsi a me quel bambino immaginando di abbracciare tutte le persone che mi erano state strappate; abbracciai quel bambino per ritrovare il calore umano fino ad allora dimenticato, abbracciai quel bambino per ricordare a me stessa che essere umani significava anche amare e soffrire, e abbracciai quel bambino per dare a lui quel conforto che solo il contatto con una persona vicina può dare.
Detti libero sfogo così non solo al mio dolore, ma anche a quello di tutti i presenti che per la prima volta si strinserò gli uni contro gli altri, non facendo domande ne chiedendo risposte, ma solo per provare a se stessi che non era ancora finita.
"Non ha senso, tutto questo non ha senso." una donna dai lunghi capelli si passo una mano tra la sua chioma oramai incrostata di sporcizia. "Niente ha senso. Non ci uccidono, ma ci gettano qui dentro ad aspettare. Aspettare cosa?" una traccia di isterismo si diffuse nella voce prima debole.
Si alzò in piedi di scatto cominciando a camminare avanti e indietro. Più che vederla, sentivo il rumore della suola delle sue scarpe sul pavimento di pietra.
Tutto era avvolto in un alone di oscurità, solo una sottile luce proveniente dalla porta ci ridava parzialmente l'uso della vista.
"Si che vi è un senso in tutto questo, e lo scopriremo presto" la voce roca di un uomo mi raggiunse dall'angolo opposto della cella. Era stanca, e priva di forza. " C'è un motivo per il quale non ci hanno ancora ucciso e credo..."
Ba Ba BAM. Dei colpi furono martellati sulla porta seguiti da una voce maschile decisamente alterata.
" Ei lì dentro fate silenzio, e non costringetemi ad entrare se non volete ricevere un trattamento che vi farà pentire di essere nati"
Una scarica di terrore si diffuse tra tutti i prigionieri. Mi rannicchiai sempre di più su me stessa tenendo vicino a me quel dolce bambino che mi si era avvicinato prima.
Fu quando il silenzio fu ristabilito da molto tempo che osai avvicinare la mia bocca all'orecchio del bambino e bisbigliare piano "Qual'è il tuo nome?"
Imitando a sua volta i miei movimenti, sentii le piccole labbra del bambino posarsi sul mio orecchio "Zefiro" fece una pausa "e il tuo?"
"Faolar, mi chiamo Faolar" poggiai la guancia sulla sua testa e sentii le sue braccia cingersi attorno alla mia vita.
"Sai io ti vidi, durante il battesimo, eri molto bella." Nascose timidamente il viso nell'incavo della mia spalla.
Il ricordo di quel giorno, oramai così lontano dalla mia vita attuale mi provocò un altra piccola stillettata al cuore "Grazie" le labbra mi tremarono e sospirando mi lasciai scivolare in un sonno privo di sogni.

Aprii gli occhi, sbattei le palpebre piu volte ma non riuscii a focalizzare nulla. Notai che la luce fievole che filtrava da sotto la porta era stata spenta.
Sentire il piccolo petto di Zefiro premuto contro il mio fianco alzarsi e abbassarsi regolarmente mi fece svegliare del tutto.
Piccoli singhiozzi trattenuti rompevano il silenzio glaciale che si era venuto a creare all'interno della cella.
Mi alzai cercando di non svegliare Zefiro, quelli del sonno erano gli unici momenti nella quale poteva evadere dalla realtà e non volevo riportarlo immediatamento nel nostro limbo personale. Ma io dovevo fare pipì.
Non essendoci un bagno, raggiunsi un angolo a tentoni, e dopo aver controllato che fosse vuoto - agitando un braccio fendendo l'aria vicino a me - mi chinai e alzai i cenci sporchi che componevano la mia veste.
Mi vergognavo, mai in vita mia mi ero ridotta a fare una cosa del genere, e anche se era niente in confronto a quando avevo passato, perdere anche l'ultimo briciolo di civiltà mi fece salire le lacrime agli occhi.
L'odore che impregnava nell'aria mi fece capire che non ero l'unica ad aver avuto questo stimolo.
Del resto eravamo in molti la dentro, e c'erano tutte le premesse che vi rimanessimo a lungo.
Quella cella sarebbe presto diventata una latrina, se fossimo andati avanti di quel passo.
Tornai al mio posto, e quando mi sedetti, trovai Zefiro che mi aspettava sveglio anche se insonnolito.
Gli accarezzai i capelli "Sei un bambino corsaggioso" gli sussurrai
"Non ho paura del buio, è degli uomini che ho paura." fece una piccola pausa "mi sento stanco Faolar, tanto stanco."
"Chiudi gli occhi allora e immagina i verdi prati che costeggiano la nostra bella città, immagina di essere lì a correre e a guardare il sole e dormi sognando questo."
Lo senti annuire e stendersi accando a me poggiando la testa sulle mie ginocchia.
Cercai di fare anche io lo stesso, ma immagini di fiamme presero il posto dei boschi nella mia mente e gli occhi spalancati di mio fratello mentre mi fissava un attimo prima di morire mi fecero aprire i miei mentre ricominciavo a piangere cercancado così di far uscire tutto il dolore che stavo accumulando dentro me, fallendo miseramente.
Sembrava che non ci fosse mai fine alle lacrime, e quando finalmente non ne ebbi più da far uscire fuori rimasi per quelle sembravano ore a fissare il buio di fronte a me con gli occhi, che bruciando, mi ricordavano che non era ancora finita.

Non so dire quanti giorni passammo dentro quella cella.
Il tempo era scandito dall'avvicinarsi dei soldati che venivano annunciati dal suono pesante dei loro passi.
Aprivano la porta e quando questa veniva spalancata una lieve luce ci mostrava per un attimo quello nel quale ci stavamo trasformando: derelitti.
Quelle oscure figure gettavano dentro del cibo e portavano dell'acqua dal cattivo sapore.
Mi gettavo su quegli avanzi con foga nel tentativo di prenderne non soltanto per me ma anche per Zefiro, verso il quale stavo sviluppando un grande attaccamento: Eravamo la forza l'uno dell'altra.
Più il tempo passava più il fetore dentro quella grande cella aumentava, e più il fetore aumentava più lo notavo meno. Oramai mi ero abituata al buio, all'inerzia e al cattivo odore. L'unica cosa della quale non mi abituavo era lo stato di costante terrore nel quale non solo io, ma tutti vivevamo.
Fu dopo molto tempo che la porta della nostra prigione si aprii per far entrare dentro molti uomini.
"Voi, forza alzatevi" l'uomo che ci aveva portato da mangiare fino ad allora indicò con voce perentoria un gruppetto di persone che si trovavano nella parete opposta alla mia.
"Sbrigatevi ho detto, se non volete che usi al frusta" facendo segno agli uomini che lo accompagnavano, aspettò che questi aiutassero i prigionieri ad alzarsi.
"Legateli immediatamente"
"Si signore" risposero in un corso scordinato gli uomini.
Ci avvicinammo l'uno a l'altro e strinsi Zefiro a me. Dove stavano portando quelle persone?
Tremando cercai di spostarmi più lontano possibile da loro.
Un mormorio impaurito si diffuse in tutta la cella.
"Silenzio!" L'uomo che dava gli ordine fece schioccare con forza la frusta sul pavimento.
"Dannazione quanto ci vuole per legare degli inutili straccioni?" Gli uomini si sbrigarono a terminare il lavoro e spingendo i prigionieri fuori dalla cella potei contarli.
Ne stavano portando via quindici.
Una volta chiusa la porta mi sentii sollevata, non era ancora il mio turno.
Ovviamente gli schiavi prelevati dalla nostra prigione non tornarono mai più indietro.
Durante quelle interminabili giornate d'agonia mi chiesi se li avessero uccisi, e se quella era la sorte che sarebbe toccata anche a noi altri.
Più il tempo passava e più tutte le mie paure prendevano il dominio sulla ragione.
Non riuscivo a dormire, non riuscivo a pensare, a malapena ero in grado di mangiare. Fissavo il vuoto di fronte a me incessantemente, non mi davo mai pace, e quando Zefiro dormiva gli incubi mi raggiungevano anche se facevo di tutto per scacciarli.
Non potevo più continuare in quella maniera me ne rendevo conto persino io.
Poi ritornarono. Le porte si spalancarono facendo entrare le stesse persone che avevano portato via i nostri compagni.
Tutto si svolse nello stesso modo, solo che insieme a loro portarono via anche Zefiro.
Prima che me lo strappassero via lo strinsi a me convulsamente, e quando le guardie lo fecero alzare malamente per legargli le mani, lo trattenni urlando con tutto il fiato che avevo in gola
"No lasciatelo qui con me vi prego"
"Faolar" Le sue lacrime mi strazziarono il cuore che era gia sanguinante.
"No" ripetei con terrore "No vi prego no" piangendo accettai la mia punizione giunta per le mani del soldato che aveva legato Zefiro.
Lo guardai uscire dalla cella sapendo che non sarebbe più tornato.
Quanto dolore avrei dovuto ancora sopportare? sarebbe mai stato abbastanza?
Una volta che il buio torno ad inghiottirmi mi lasciai cadere a terra, e cosi rimasi per giorni, alzandomi solo per andare a mangiare.
Era incredibile, nonostante tutto quello che stavo passando, e il dolore che mi spaccava in due parti il cuore, sentivo la forza della vita che scorreva indomita nel mio sangue, contro tutte le aspettative.
Era un agire meccanico dettato dall'istinto più che dalla ragione. Ogni volta mi alzavo a sedere e strisciando arrivavo al centro dove con dita tremanti raccoglievo ciò che mi bastava e bevevo quanto piu potevo. Una volta fatto tornavo indietro verso la mia nicchia, verso il mio oblio.
Giorno dopo giorno, questa era l'unica cosa che scandiva quella specie di esistenza che mi trovavo a vivere.
Ma come per le persone prima di me, arrivò anche il mio turno e vennero a prendere anche me.

sabato 16 gennaio 2010

Schiava del fato - Le caratteristiche della storia


Quello che sto per scrivere generalmente lo uso come appunto per delineare le caratteristiche delle popolazioni delle quali vado a parlare.
è una sorta di schema che mi aiuta a rendere chiara l'immagine delle varie civiltà della storia, per evitare di contraddirmi durante il racconto e anche per calarmi di piu nei vari personaggi.
Quelle che descrivo sono un mix delle culture di alcune popolazioni realmente esistite nella storia, solo che le plasmerò ovviamente in maniera a me consona.
Quella che vi presento ora è la civiltà di Faolar

La civiltà di Faolar è la civiltà dell'Ellade, un popolo pacifico che si è sviluppato nei presi di un piccolo lago considerato sacro, e da loro visto come simbolo di purezza incontaminata, totale. Le acque sono così splendide e perfetta da esser ritenute come protetette dalle mani stesse di una divinità. Nessuno osa bere quell'acqua perché viene destinata a fini ben più importanti e simbolici. Utilizzano piccole quantità di quell'acqua cristallina solamente durante le funzioni cerimoniali, quali Battesimi e matrimoni.

  • Non credo che debba raccontare nuovamente il rito del battesimo quanto piuttosto spiegare alcuni punti fondamentali. Secondo la popolazione di Faolar il battesimo non doveva essere praticato una volta venuti al mondo, ma piuttosto veniva visto come simbolo di rinascita, di abbandono della fase della fanciulezza nella quale non si era padroni della propria vita, verso una nuova maturita che aveva diramate davanti a se nuove strade e possibilità.Non vi era un età precisa nella quale battezzarsi, ma era una cosa che doveva venire spontanamente, seguire un bisogno proprio della singola persona. E come ogni rito che si rispetti non può mancare una piccola donazione di sangue come suggello del tutto. Il sangue è sempre stato considerato un elemento incredibilmente potente da qualsiasi tipo di cultura, poichè esso è fonte della vita stessa e scorre in noi caldo e veloce pronto a mantenerci in forze.
  • Durande il matrimonio l'acqua simboleggia un ideale più romantico. Il matrimonio veniva generalmente celebrato di notte, nel momento nel quale la luna era ben visibile. Era credenza che ogni giuramento d'amore fatto sotto gli occhi della luna avrebbe avuto un significato più forte quasi divino, e con la benedizione lunare sarebbe arrivata anche l'augurio di una maggiore fertilita. La coppia di sposi si recava così di notte nei boschi che circondavano la città seguiti dai familiari e dal sacerdote che portava con sè una piccola ampollina dell'acqua benedetta del lago, questa veniva fatta scendere tra i seni di lei e il petto di lui, volendo simboleggiare che come l'acqua sacra scorre veloce lavando i peccati dei loro corpi, così l'amore scorerà fluido tra loro senza alcun ostacolo.

LA CITTA:

La città di Ellade è una città fiorente e pacifica, sviluppatasi nel corso di duemilacinquecento anni fino a contare migliaia di abitanti.
Le catene montuose che circondavo il loro territorio, unite ai vari laghi, avevano isolato quasi totalmente la popolazione, che tuttavia non sentiva il bisogno di cercare il contatto con popolazioni esterne, accontentandosi comunque sia di una porzione di territorio molto vasta.
Dopo la costruzione delle mura duemilatrecento anni prima la popolazione era cresciuta così tanto da cominciare ad occupare anche il territorio circostante alle mura, fino ad arrivare alla creazione di piccole comunità a qualche chilometro di distanza.
All'epoca di Faolar si erano venute a creare 27 comunità delle quali 14 completamente autosufficenti. Grandi strade comunque sia, collegavano i vari centri.
Nella città principale erano presenti splendide costruzioni di architettura classica. Il colore che predominava era quello bianco del marmo, elemento che abbondava intorno a loro.
Gli edifici più importanti erano l'anfiteatro nel quale veniva sia eseguite splendide rappresentazioni che processi ai fini della giustizia, la biblioteca che conteneva scritti dei loro antenati, e i meravigliosi templi dedicati ognuno a una delle loro divinità.
Tre volte a settimana si teneva il mercato del paese, nel quale si riunivano i commercianti di ognuna delle comunità pronte a fornire una quantità di cose che altrimenti non ci sarebbero potute essere.
Come forme di pagamento venivano utilizzate sia monete in bronzo raffigurante l'edera come effige, sia il baratto.


IL CONSIGLIO:

A gestire la civiltà di Ellade, come rappresentanti della giustizia era il consiglio, composto dai 25 saggi della città, che a loro volta eleggevano il loro rappresentante supremo.
Ogni domenica tenevano una seduta di processi nell'anfieteatro nel quale risolvevano ogni questione portata davanti a loro dai cittadini stessi.
Ogni centro cittadino al di fuori delle mura di Ellade possedeva un rappresentante eletto popolarmente ed erano questi a porre all'attenzione dei saggi, i problemi che si avevano negli altri centri.
Quella che esisteva infatti era criminalità minore, esistevano si le prigioni, ma per ospitare criminali comuni come ladri, bari, assassini, e di conseguenza vi erano guardie addestrate per tenere sotto controllo quella situazione.
Per questo al momento dell'assedio non vi era una vera e concreta possibilità di respingere un attacco di massa.


ABITI TIPICI:

Gli elladiani non avevano una vera vera e propria moda.
Indossavano tutti indistintamente tuniche bianche lunghe fino alle caviglie con sandali di cuoio.
Quello che cambiava a seconda delle occasioni erano le cuciture con le quali queste tuniche erano intessute.

  • Ricami Oro: erano i ricami utilizzati quotidianamente
  • Blu e Argento: utilizzati durante le feste tradizionali
  • Rosso e oro: venivano vestiti durante il matrimonio, o nel caso delle donne, durante il periodo della gravidanza.
  • Nero: durante le occasioni di lutto.
Un eccezione all'abbigliamento degli uomini era nel caso di queli gia maritati che aggiungevano alla tuniche una fascia al braccio di color marrone intorno al braccio sinistro, mentre le donne sposate erano solite portre i capelli raccolti, abitudine tuttavia che stava scomparendo.

venerdì 15 gennaio 2010

Schiava del Fato - 1° Capitolo


I caldi raggi del sole pomeridiano mi baciavano il volto, mentre inginocchiata con gli occhi chiusi rendevo omaggio alla dea del lago.
Sentii un sorriso sbocciare sulle mie labbra quando i miei sensi - amplificati dalla concentrazione - percepirono il rumore del vento che sinuoso ed elegante si muoveva tra gli alberi agitandone le foglie e portando con se i primi segni dell'autunno.
La grande e calda mano di mio padre si posò sulla mia spalla.
Il cuore comincio a battermi più velocemente e la pace che fino ad allora albergava dentro me, fece spazio a un sentimento di eccitazione e aspettativa che si trasmise al mio sguardo nel momento in cui aprii gli occhi, ritrovandomi a fissare il sorriso ogoglioso di un padre che ama la figlia infinitamente tanto.
E cosi dopo mesi passati in profonda meditazione e in contemplazione di quella natura della quale mi sentivo parte, era giunto il momento tanto atteso.
All'età di diciannove anni ero pronta a lasciare le spoglie della fanciullezza per entrare nell'età adulta, vestita di un nuovo manto e di una nuova consapevolezza che mi avrebbe finalmente resa donna.
Senza dire una parola ci facemmo strada tra la folla inginocchiata e ci avviammo insieme alle altre giovani donne, sul ponte che collegava la riva al centro della polla d'acqua intorno alla quale, tanti millenni prima, aveva preso vita la nostra civiltà.
Mi feci avanti camminando con passo sicuro e il mento fieramente alzato, felice che quel giorno fosse finalmente giunto anche per me.
L'acqua era ciò che di più sacro possedevamo. Rendevamo lei grazie una volta l'anno e nelle sue splendide e limpide acque venivamo consacrati a nuova vita.
Il dolce suono del flauto intessé intorno a noi una fitta e luminosa trama che conferì alla cerimonia un aura quasi divina e primordiale.
Il rito che stavamo per celebrare veniva compiuto nello stesso modo dai nostri avi. Nulla era cambiato poiché se cosi non fosse stato il legame che ci collegava alle nostre origini sarebbe stato spezzato e la magia che ci univa alla madre terra e ai nostri progenitori sarebbe svanita.
Il sacerdote cantò nella lingua antica accompagnato dalle note soavi del flauto che vibravano nell'aria con infinita grazia.
Mio padre, mi si accostò lasciandomi la mano e mormorando le parole dell'antico canto abbassò la tunica dalle mie spalle, accordando i suoi movimenti a quelli degli altri padri in una danza semplice quanto antica. Rimasi nuda lì davanti a lui, non più consapevole degli sguardi degli altri, lasciando che il vento e i capelli mi accarezzassero lievemente il corpo.
Inginocchiandosi vicino alla riva unì le mani a coppa e raccolse nei suoi palmi l'acqua che avrebbe benedetto il mio corpo, purificandolo.
Riversandola sul mio capo, prese poi il pugnale portogli da un accolito alla sua destra e si accinsè così ad applicare un piccola pressione con la punta, lì dove il cuore batteva al ritmo caldo e intenso della vita.

"Coloro che furono possano accompagnare te, che del cuor mio sei parte, nell'impervia vita, donando forza quando la debolezza di te farà suo giuoco e spargendo sole la dovè l'oscurità coprirà i passi tuoi. Quelle genti che già calpestarono il verde di questi prati, ora rivivono.
O' mia bella rosa, a te l'amor non verrà mai meno. Ascolta il padre tuoanche or che tu sei donna."



E finalmente sentii la lama che incideva teneramente la mia pelle, a suggellare un patto tanto antico da non potersi accontentare di niente di meno che del sangue, poiché in esso è contenuta la chiave più potente mai esistita, basando la sua forza su tutto ciò che di primordiale ancora rimane in noi.
Delle gocce cremisi stillarono dalla ferita. Le raccolsi con la punta delle dita e le portai alle labbra lanbendole con la lingua così come la tradizione voleva. Prendedone delle nuove mi diressi verso il centro dello spiazzo dove mi fu consegnata una pergamena.
Inginocchiandomi, aprii la pergamena e iniziai a tracciare con il mio stesso sangue un simbolo sacro: un bastone con due serpenti attorcigliati ad esso.
Arrotolando la pergamena la chiusi con un filo d'edera. Dopo che tutte le altre giovani donne ebbero fatto lo stesso ci recammo intorno alla fiaccola, e in un momento di intenso silenzio bruciammo le pergamene nello stesso istante.
Fu allora che il sacerdote ci raggiunse accompagnato ancora da quella musica cosi melodiosa.
Con un candito telo, asciugo la mia ferita e passo sopra di essa un unguento dal forte odore muschiato.

"Che ora tu sia libera di andare incontro a ciò che ti è stato riservato e che in ciò il fato sia sempre accanto a te propizio"



Una nuova tunica fu fatta scivolare sulle mie braccia alzate; mio padre mi bacio sulla fronte e prendendomi sotto braccio mi guidò verso la mia famiglia che mi aspettava, impaziente di potermi festeggiare.
Mia madre, Clizia, mi sorrise dolcemente, mentre mio fratello Glauco ridendo mi prese in braccio facendomi girare intondo come mi piaceva tanto da bambina.
"Benvenuta fra noi adulti piccoletta" disse stampandomi un sonoro bacio sulla guancia. "Eri bellissima, nessuna eguagliava il tuo splendore" dandogli una piccola strattonata al collo della sua tunica mi agitai per farmi posare a terra "Beh ora puoi anche farmi scendere non trovi?"
Fu allora che mi sentii strattonare leggermente la tunica, guardai in giu, mentre Glauco mi adagiava a terra, e vidi gli splendidi riccioli castani di Iride che mi porgeva un mazzolino di lavanda, dal quale si levava un delizioso profumo."Lavanda per te sorella, te ne ho portata un intero mazzolino cosicchè sarai sicura di trovare presto marito".
Il mio popolo utilizzava la lavanda come simbolo d'amor puro, cosicchè era divenuta presto usanza che tutte le giovani donne pronte ad abbandonare il nubilato se ne dovessero legare un piccolo ramoscello tra i capelli, proprio dietro l'orecchio, per farsi riconoscere e mettere in luce questa ricerca.
Presi delicatamente il mazzolino dalle sue manine di bimba sorridendole "Sei cosi impaziente di liberarti di me, Iride?" la presi un pò in giro. Spalancando i suoi dolci occhi verdi si affretto ad assicurarmi "Ma no sorella, è solo che.."
"..che ho bisogno di molto aiuto per trovare qualcuno" terminai per lei. " Ma no no tu non ne hai bisogno per quello, da qua" si riprese il mazzolino in mano, mettendo un broncio che la rendeva ancor più deliziosa " Lo tengo io allora".
Scoppiammo tutti a ridere. "Sto scherzando ho compreso il tuo gesto e te ne ringrazio ora dammelo, lo conserverò con cura" le carezzai i capelli, mentre lei con una linguaccia mi dava quello che era il mio regalo.
Fu in quest'atmosfera gioiosa che ci accingemmo a raggiungere gli altri cittadini al banchetto tenutosi in onore della festa del lagoe di noi giovani donne.
Avremmo mangiato, ballato e cantato fino a notte fonda, dando vita a uno dei più bei momenti folcloristici delle nostre tradizioni.
L'unico modo per omaggiare veramente la nostra dea protettrice, la dama del lago, era quello di gioire della vita insieme ai nostri cari.
Attendevo quella festa con ansia perché speravo di trovarvi Rolande e di farmi invitare a ballare. Prima di allora non ne avevo mai avuto il coraggio, ma ora che ero finalmente un adulta potevo sperare che mi guardasse con occhi diversi.
Arrivammo al banchetto che la luce del sole ancora splendeva su di noi, e ci mettemmo in fila per arrivare al nostro tavolo.
Una volta giunti, mio fratello sposto cavallerescamente la mia sedia per cedermi il posto d'onore accanto a nostro padre "Non farci l'abitudine sorella cara" disse mentre andava ad occupare quello che abitualmente era il mio posto "questa è una serata speciale e perciò sarò indulgente, ma ricordati che prendi sempre ordini da me" roteando gli occhi con finta frustrazione gli lanciai un sorriso malizioso "Beh spero di non rimanere seduta tutta la notte". Risi nel vedere la sua espressione scioccata, Dio era cosi adorabile mio fratello che ringraziavo il cielo di avermelo donato, tuttavia evitavo di fare certe manifestazioni affettuose perché a ventun anni non credo che Glauco amasse sentire me che lo definivo "adorabile" anche perché tra qualche tempo si sarebbe probabilmente sposato, sempre che Velesia accettasse la sua proposta ovviamente.
Guardai intorno a me per vedere se scorgevo l'immagine di Rolande in giro, di certo i suoi capelli neri si sarebbero notati a distanza, essendo inoltre, discretamente alto.
Non feci in tempo a terminare la mai occhiata perlustrativa che avvertii una piccola vibrazione sotto i piedi. Tesi i sensi al massimo, ma era come se non fosse successo nulla. Ero proprio una sciocca, nemmeno avevano cominciato a servire le bevande e io gia avevo i sensi alterati.
Mi girai verso mio padre, sorridendogli in quel modo che sapevo incantarlo " Padre sarei liete se mi riservaste la prima danza, quando i musicisti cominceranno a suonare" lui ridacchio compiaciuto "Beh se ti accontenti di danzare con un povero vecchio allora..."

TU TUM

Il silenzio calò improvvisamente sulla piazza. Questa volta non me l'ero immaginata la vibrazione, erano tamaburi, che in quel preciso momento cominciarono a tuonare minacciosi.

TA TUM TUM TUM TA TUM


Erano tamburi di guerra, qualcuno si stava avvicinando, e anche in fretta.
Un giovane guardiano di vedetta quella sera al cancello corse come se avesse il demonio stesso alle calcagna.
Al suo passaggio la gente si spostava automaticamente per fargli spazio e fu così che attraversando un tunnel umano giunse a recare una notizia al capo del consiglio che doveva essere se non infausta, di certo di grande importanza.
Il saggio ascoltò con attenzione quello che gli veniva sussurrato e nulla poteva essere letto dalla sua espressione che rimase sempre impassibile.
Il capo del consiglio si alzò così in piedi e con voce calma e potente nonostante l'età, tuonò
"State calmi!" fece una pausa per permettere a tutti di dedicare l'attenzione a lui. Un bambino cominciò a piangere mentre la madre nervosamente se lo portò al petto.
Ci voltammo tutti verso il Saggio con gli occhi spalancati, mio padre mi cinse le spalle mentre mia madre prese in braccio Iride che da brava bambina coraggiosa non emise un sol suono. Glauco invece si rivolse a mio padre nervoso ma con tono fermo "Padre col vostro consenso io.." " Si certo vai da Velesia".
Velocemente vidi mio fratello maggiore allontanarsi dal nostro tavolo mosso da un bisogno più grande di quello di proteggere la sua famiglia; era davvero innamorato della sua bella.
Il rullo di tamburi cominciava a farsi leggermente più vicino e sempre più costante, suonato da mani abili ed esperte, evidentemente abituate a questo tipo di incarichi.
"Che qualcuno chiuda i cancelli della città" i due giovani guardiani di turno si affrettarono a chiudere i cancelli, aiutati da dei volontari lì vicino per poter fare più in fretta.
"Bene signori, credo che tutti quanti conosciamo il significato di questi tamburi, perché questi sono tamburi di guerra." Dalla folla cominciò a serpeggiare un gran vociare fino a che qualcuno urlò "Stanno venendo ad invaderci!", "invaderci?" risposero in coro alcune voci.
Il panico si sprigiono in un solo istante, mi sentii spingere da dietro da tutte le persone che dietro di me cercavano di uscire dalla massa per dare libero sfogo alla loro paura.
"Silenzio!" tuonò la voce del saggio così potente da sovrastare il caos che si era venuto a creare.
"Hedemus,Themipatros,Lycs" chiamò il saggio "Abbiamo la possibilità di affrontare un assedio?"
nel silenzio si alzo la voce di Themipatros "No, saggio. Sono mille anni che non ci pervengono notizie di popoli circostanti, non abbiamo truppe, solo giovani guardiani che non possono affrontare un combattimento." l'atmosfera di fece ancora più carica di tensione e sentii mio padre stringermi leggermente la spalla, tentando di rassicurarmi.
La posizione della nostra città non era stata scelta in maniera tattica, tuttavia il caso volle che fu erta in una valle circondata dalla congiunzione di due piccole catene montuose e una vasta e splendida area boscosa, che trovava pausa tra un lago e l'altro.
In questa maniera eravamo rimasti perlo più isolati e ci eravamo quindi sviluppati come un popolo amante delle belle arti più che della guerra, come le nostre meravigliose piazze decorate con splendide statue potevano testimoniare; mio padre stesso era uno scultore.
L'ultima accademia militare fu chiusa circa 900 anni prima dato che di crescere guerrieri non ve ne era bisogno alcuno, prosperando alla nostra maniera ed espandendoci fino ad arrivare alla creazione di piccole comunità al di fuori della grande città.
"Cosa ci proponete allora" disse il saggio. Le sopraciglie aggrottate mentre con la mano sinistra reggeva il bastone e con la destra si accarezzava nervosamente la bianca barba.
"Fuggire signore".
Il suono di potenti cornamusa si erse forte dalla foresta, il marciare degli uomini era diventato percettibile.
Bambini intorno a me iniziarono a piangere. Le donne si stringevano ai loro uomini che cercavano di dimostrarsi coraggiosi.
"L'unica via di fuga oltre al cancello principale della parte nord è il sotterraneo sotto la cinta delle mura est" fece Hedemus " ma è possibile solo far passare tre persone alla volta, non ce la faremo mai a far passare tutti".
Allora fu il caos e vani furono i tentativi del consiglio di riportare un minimo di ordine.
Non avevamo mai conosciuto la realtà dell'assedio, solo leggende trasformate in racconti potevano darci una vaga idea di quello che ci aspettava, ma realisticamente parlando, non avevamo scampo.
Guardai mio padre negli occhi, e non vi scorsi ne paura ne timore.
"Padre è la fine?" lui mi afferrò il polso e cominciò a trascinarmi con forza e insistenza fuori da quella folla di migliaia di persone che avevano perso ogni parvenza di civiltà.
Mia madre ci venne vicina insieme a Iride "State tranquille bimbe mie ce la caveremo in un modo o nell'altro" ma dal tono della sua voce compresi che anche lei aveva paura. Tuttavia riponeva in mio padre una fiducia cieca e lo avrebbe seguito ovunque.
Avanzammo lentamente tra la folla, marciando nella direzione opposta alla calca. D'un tratto compresi quella che era l'intenzione di mio padre: farci uscire dal cancello principale.
Tentai così di farmi sentire sopra la confusione "Padre, padre" urlai più volte il suo nome e senza fermarsi si voltò a guardarmi " Padre non possiamo uscire dalla porta principale stanno per arrivare" e come per darmi ragione i suoni di tamburi e cornamuse si fecero via via sempre più forti. " si che possiamo, stanno andando tutti nell'uscita est, non ce la faranno mai a passare di li, l'unica nostra possibilità è tentare l'uscita principale".
Continuammo cosi a spingere, mentre freneticamente chiamavamo Glauco.
Tutto ad un tratto mi sentì travolgere dal peso di un uomo che mi cadde malamente addosso.
"Padre" urlai con tutto il fiato che avevo in corpo, ma con mio orrore vidi che lui e mia madre erano stai spinti via dalla folla "Faolar" mia madre tra le lacrime chiamò il mio nome a gran voce, mentre mio padre cercava invano di tornare indietro a prendermi.
Li vidi spinti via, li vidi fino all'ultimo che lottavano per non abbandonarmi, e li vidi perdere quella battaglia.
Una donna mi calpesto una caviglia nel tentativo di fuggire, e urlai dal dolore.
Sentii all'improvviso una mano che mi prese per i capelli e mi aiutò a rialzarmi. "Glauco" gettai le braccia al collo di mio fratello che mi prese in braccio " andiamocene subito via di qui Faolar" mi strinsi a lui chiudendo gli occhi.
Lo sentii ansimare e grugnire mentre con spallate potenti si faceva spazio tra il fiume di persone. Dopo quella che sembro un eternità raggiungemmo finalmente il limitare della piazza.
Costeggiando il lago sacro e schivando le persone che correndo rischiavano di travolgerci. "Glauco, dov'è Velesia?" chiesi a mio fratello che mi rispose senza guardarmi "è con i genitori al sicuro". Non gli feci altre domande, continuai invece a guardare dritto a me cercando di ignorare la paura e le fitte che dalla caviglia si diffondevano attraverso tutta la gamba pulsando in maniera dolorosa, probabilmente dovevo essermela rotta.
Uno schianto eccheggio nel fragore che ci circondava e come un orda demoniaca, l'esercito invasore si riverso all'interno delle nostre mure, lasciando dietro di loro una scia di fiamme e morte che poteva essere respirata.
Da allora accadde tutto a rallentatore intorno a me, come se avessi eliminato ogni suono ed escluso le voci urlanti di tutte quelle persone che fino a poche ore prima si accingevano a festeggiare.
Grandi lance e torce infuocate si innalzavano dalla massa, mente spade si abbattevano su persone inermi, senza fare alcuna distinzione. Chi si trovava sulla loro traiettoria veniva infilzato, e squartato, fossero questi uomini, donne o bambini.
Urla, urla ovunque, fiumi di sangue iniziarono a scorrere nelle strade come se fosse acqua piovana.
La nostra bella città, la nostra splendida civiltà stava per essere cancellata.
Sentii Glauco ansimare, e posandomi a terra mi abbracciò strettamente "Ti voglio bene sorella" si stacco da me fissandomi negli occhi facendo scorrere una mano tra i miei capelli.
Dietro di lui vidi arrivare un guerriero dalla lunga barba e i capelli lunghi, brandendo una lancia. Lo vidi portare indietro il possente braccio e senza che avessi nemmeno il tempo di gridare, vidi gli occhi di mio fratello spalancarsi. Un rivolo di sangue prese a colargli verso il mento.
Con un ultimo suono gutturale - un suono che non potrò mai dimenticare - Glauco si accascio a terra e prima che l' ultimo scintillo di vita lo abbandonasse mi copri usando se stesso. Senti la sua vita sfuggirmi dalle mani e non potei che guardare il suo corpo immobile, rimanendo schiacchiata lì al suolo disperata e lacerata.
Persi contatto con la realtà ingoiata immediatamente dal dolore mentre il sangue di mio fratello colava ad imbrattarmi la tunica.
A riportarmi alla coscenza fu una mano che, spostando malamente il corpo di mio fratello da sopra di me mi tirò in piedi per i capelli.
Guardando in faccia il guerriero provai un odio sviscerato per quei barbari che mi avevano gettato in un incubo.
Gli sputai in faccia "Carogna, non sei altro che una bestia immonda" gli vomitai addosso con odio.
Un manrovescio arrivo a colpirmi potente sul volto. Immediatamente sentii il sapore metallico del sangue in bocca.
Non provai dolore, fu come se mi fossi di colpo insesibilizzata. Non avrei mai piegato la testa di fronte ad un essere del genere, avrei affrontato la morte non da persona pavida, ma vera donna.
I secondi passavano e io ero ancora in vita, quasi impaziente mi ritrovai a pensare anzi, a desiderare che la facesse finita presto, ma contrariamente alle mie aspettative il barbaro davanti a me tirò fuori una corda fatta di materiale rozzo, e mi lego i polsi dietro la schiena cosi stretti da non sentire più il sangue circolarmi attraverso le dita, mi fu legata anche una corda intorno al collo, e costretta a camminare in mezzo alla devastazione, non potei fare a meno di vedere i corpi di centinaia di persone giacere scompostamente sul terreno prive di vita. Continuando a camminare scorsi anche persone che conoscevo e appena chiudevo gli occhi per cercare di lasciare fuori quelle immagini dalla mia mente, sentivo una grossa mano che spintonandomi in avanti mi urlava di camminare.
La caviglia si era gonfiata ma non me importava nulla, e cosi tra uno spintone e l'altro raggiunsi il centro della piazza vicino alla polla d'acqua sacra.
Fu con orrore che la vidi piena di sangue; Il sacro lago contaminato con del sangue, non ci potevo credere, millenni di ossequiosa cura e venerazione erano stati cancellati con un colpo di spugna.
Mi girai rabiosa verso il primo guerriero che si trovava alla mia destra, ma non feci nemmeno in tempo a girare il viso che subito un pugno mi colpì tramortendomi immediatamente.
Rinvenni, e provai un vago senso di nausea quando cautamente mi rialzai a sedere. Le prime luci dell'alba cominciavano a rivelarsie il sole maestoso si erse potente ad illuminare la carneficina occultata dalle luci delle stelle.
Altre persone erano nelle mie stesse condizioni,tutti con lo sguardo fisso nel vuoto, stremati da un evento che non ci aveva permesso nemmeno di lottare.
In una notte ci era stato strappato tutto: dignità, affetti e persino un identità nella quale rispecchiarci.
Non so quanto tempo passò prima che ci disponessero in fila e cominciare a marciare.
So soltando che tra quell'unica manciata di persone rimaste non c'era nessuno dei miei cari.
Perché mi salvai? non so dirlo, ne so dire da chi presi la forza di andare avanti, so solo che tra spinte, lacrime e dolori vari, riuscivo sempre a mettere un piedre davanti all'altro.
Camminammo per quelli che mi sembrarono chilometri una volta usciti dalle mura della città, e quando il sole brillò alto nel cielo arivammo a un grosso gruppo di rozzi carri di legno, pronti ad apsettarci.
Completamente stremata, fui quasi grata di quella mano rude che mi strattono per quello che era rimasto della mia tunica e mi getto in malo modo nel carro.
Rimasi immobile per quasi tutto il tragitto, cercando di trovare la forza di turarmi le orecchie ed estromettere quella serie di gemiti flebili ma costanti.
Durante il lungo tragitto nel quale eravamo stati trascinati, fummo fatti vermare tre volte e in ognuna di queste occasioni degli avanzi di cibo furono gettati in malo modo in ogni carro.
In alcune persone l'istinto di sopravvivenza era cosi forte da spingerli a gettarsi su quelle poche cose come se fossero bestie affamate, ignorando il cattivo odore e il cattivo sapore. Altri invece rimasero immobili, cotinuando a fissare il vuoto, ignorando ogni cosa tentasse di trascinarli fuori dall' isolamento che gli impediva di provare una qualsiasi emozione.
Inizialmente divorai ciò che trovai, poi persi interesse per quel cibo. Ciò che non ci fu data fu l'acqua, ed era proprio questa che io bramavo con tutta me stessa.
Mi lascia cadere sul pavimento del carro, con lo sguardo rivolto verso il cielo, le labbra screpolate e la gola riarsa.
Desiderai di poter volare via, insieme a quelle nuvole, abbandonare il mio corpo, dimenticare ogni cosa, ogni dolore, ogni ossesione, scappare via di nuovo libera dalle catene che mi inprigionavano.
Fu allora che una piccola goccia d'acqua mi colpi il viso. Tesi i miei sensi al massimo delle mie possibilità, e quando ne sentii un altra chiusi gli occhi.
Lasciai che quella leggera pioggia lavasse il mio corpo aprendo la bocca e lasciando che si riempisse per poter bere.
L'acqua, la nostra preziosa e benedetta acqua era venuta per darci speranza, per farci capire che non era ancora tutto finito.
Non credevo davvero che per noi ci fosse salvezza, ma per qualche istane era stato bello farsi pervadere da una sensazione liberatoria.
Non so quantò durò il viaggio, sò soltanto che ad ogni fermata i corpi di chi non ce l'aveva fatta venivano scaraventati a terra da quei guerrieri senz'anima, lasciati senza sepoltura ne benedizione.
E proprio quando pensavo di aver raggiunto il fondo, entrammo nella città dei nostri invasori.
Superammo un grande ponte in legno, e dopo pochi minuti si cominciarono ad intravedere le prime abitazioni.
La voce possente del conduttore del mio carro ghigno diabolicamente "Benvenuti a casa, schiavi"